Jobs Act, faccia a faccia Nannicini-Tiraboschi

Al convegno promosso da Adapt e consulenti del lavoro sono emerse le differenti posizioni sulla riforma Poletti. Il consigliere del governo: così creiamo occupazione. Il coordinatore scientifico: no, si sta cementificando il lavoro subordinato Jobs act, modernità o conservazione? Su questo interrogativo, lo scorso 5 novembre presso l’Auditorium Don Bosco di Milano, si sono confrontati
Al convegno promosso da Adapt e consulenti del lavoro sono emerse le differenti posizioni sulla riforma Poletti. Il consigliere del governo: così creiamo occupazione. Il coordinatore scientifico: no, si sta cementificando il lavoro subordinato

Jobs act, modernità o conservazione? Su questo interrogativo, lo scorso 5 novembre presso l’Auditorium Don Bosco di Milano, si sono confrontati i relatori intervenuti al convegno promosso da Adapt (l’associazione fondata da Marco Biagi nel 2000 per promuovere studi e ricerche nell’ambito delle relazioni industriali e di lavoro), in collaborazione con l’Ordine dei Consulenti del Lavoro di Milano.

 

Attraverso l’incontro, Adapt e i Consulenti del lavoro hanno voluto fare un bilancio sulla riforma del lavoro a un anno dall’approvazione del disegno di legge delega, invitando al confronto il consigliere economico del Governo Renzi, Tommaso Nannicini, professore ordinario di Politica economica dell’Università Bocconi ed estensore di tutti i decreti attuativi del Jobs act. A rappresentare la controparte nel dibattito, il padrone di casa Michele Tiraboschi, professore ordinario di Diritto del Lavoro dell’Università di Modena e Reggio Emilia e Coordinatore Scientifico di Adapt.

 

“Modernità o conservazione? Non è l’obiettivo di questa riforma”, risponde Nannicini. “È moderna perché è pragmatica, parte dal mercato del lavoro attuale e vuole risolvere alcuni problemi”.  “In questi decenni si sono susseguite svariate riforme del lavoro – ha aggiunto – ma di questa ne avevamo bisogno perché la riforma del lavoro Renzi-Poletti ribalta il paradigma su cui si sono basati quasi tutti gli interventi precedenti, per cui si facilitava il ricorso a forme contrattuali atipiche lasciando immutata la disciplina del lavoro subordinato a tempo indeterminato, e non si può negare che i nuovi meccanismi produttivi non abbiano messo fuori gioco il sistema di subordinazione”. Secondo il consigliere, per creare occupazione aggiuntiva e preparare il mercato del lavoro alla ripresa economica, la riforma ha dovuto tenere conto della crescente domanda di flessibilità e liberalizzazione delle forme contrattuali del lavoro atipico, che necessitano di nuove tutele.

 

Tra gli strumenti messi in campo con il Jobs act, Nannicini si è poi soffermato sul contratto a tutele crescenti, l’esonero contributivo, la disciplina dei nuovi confini tra lavoro subordinato e autonomo, l’intervento sugli ammortizzatori sociali e sulle politiche attive. “Il contratto a tutele crescenti è il nuovo contratto a tempo indeterminato che risponde alle esigenze di flessibilità. È un intervento strutturale, in base al quale le tutele devono essere crescenti con l’anzianità del lavoratore, un’idea semplice ma importante – ha spiegato il consigliere. L’esonero contributivo per i neo assunti per i primi tre anni è invece un intervento congiunturale, un’iniezione iniziale che non si potrà ripetere; andrà poi sostituito da altro, intanto sarà ridotto ai soli primi dodici mesi”.

 

Secondo Nannicini è ancora presto per tirare le somme, tuttavia alcuni indicatori fanno supporre che il Jobs Act stia avendo effetti positivi. “Si è riallineata la sfasatura tra la ripresa economica e del lavoro, il tempo indeterminato sta tornando ad essere la porta d’ingresso privilegiata nel mercato del lavoro. Secondo gli ultimi dati Inps, nel 2015 il saldo tra attivazioni/trasformazioni e cessazioni è triplicato, la metà grazie all’esonero contributivo”, ha concluso.

 

Diametralmente opposta la visione di Tiraboschi, secondo il quale l’aumento occupazionale si sarebbe verificato soltanto tra gli over 50 e per effetto della legge Fornero, mentre l’occupazione giovanile rimane inchiodata al 40%. “Non nascondo la mia delusione rispetto ad un progetto che avrebbe dovuto modificare le infrastrutture – ha spiegato Tiraboschi. Questa riforma è stata fatta in chiave politica con l’obiettivo di togliere l’articolo 18. Mi chiedo dove stia la modernità di una riforma che ribadisce la centralità del lavoro subordinato a tempo indeterminato. Il lavoro del futuro è un lavoro agile, a progetto, strutturato per fasi e caratterizzato da condivisione e flessibilità. Andando avanti in questa direzione, invece, cementifichiamo la subordinazione”. Secondo il coordinatore scientifico di Adapt, il Jobs act non sarebbe quindi stata la rivoluzione copernicana annunciata un anno prima dal premier Renzi.

 

Ospiti del convegno anche i responsabili delle risorse umane di tre grandi realtà produttive, Paolo Ghislandi di Same Deutz-Fahr (azienda metalmeccanica), Elisabetta Pezzotta di Cloetta (multinazionale dolciaria) e Massimo Pietracarpina dell’Istituto europeo di Oncologia e centro cardiologico Monzino. Secondo la responsabile di Cloetta, il Jobs Act avrebbe generato un “mostro a due teste”, due categorie distinte di lavoratori a tempo indeterminato che godono di tutele diverse, una disparità alla quale, secondo Pezzotta, bisognerebbe porre rimedio. Favorevole, invece, Ghislandi, il quale considera il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti uno strumento stimolante per i lavoratori neo assunti. Opinione condivisa anche da Pietracarpina che, oltre a sottolineare come l’entusiasmo e la motivazione dei giovani assunti con questa nuova forma contrattuale abbia contagiato anche i dipendenti con anzianità superiore, ha posto l’accento sul ruolo svolto dal Jobs Act sia nell’aver concesso una maggior flessibilità di assunzione all’interno delle aziende ospedaliere che nell’aver regolamentato un mondo di mezzo, fatto di stage e borse di studio. Secondo Pietracarpina i nodi da sciogliere rimangono l’elevato costo del personale e, posizione condivisa anche dai due colleghi, l’elevato tasso di disoccupazione che la riforma del lavoro non ha contribuito a ridurre.