Indagini finanziarie, cosa (non) cambia per i professionisti

L’articolo 7 quater del Dl 193 del 2016 è intervenuto nell’articolo 32, primo comma, n. 2, del DPR 600/73, recante la disciplina dell’utilizzo delle indagini finanziarie in materia di accertamenti fiscali, apportando due modifiche che riguardano rispettivamente il mondo professionale e i titolari di reddito d’impresa. Quanto ai professionisti, l’intervento effettuato consiste nella soppressione della

L’articolo 7 quater del Dl 193 del 2016 è intervenuto nell’articolo 32, primo comma, n. 2, del DPR 600/73, recante la disciplina dell’utilizzo delle indagini finanziarie in materia di accertamenti fiscali, apportando due modifiche che riguardano rispettivamente il mondo professionale e i titolari di reddito d’impresa.

Quanto ai professionisti, l’intervento effettuato consiste nella soppressione della parola “compensi” nel passaggio della norma che prevede “alle stesse condizioni sono altresì posti come ricavi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti”.

Relativamente ai titolari di reddito d’impresa (essendo pertanto interessate anche le società tra i professionisti), è stata introdotta una sorta di soglia di non applicazione della presunzione sui prelievi, stabilendo la non possibilità di contestazione se di ammontare non superiore 1.000 euro e comunque con un tetto massimo di 5.000 euro mensili.

 

Come si è giunti ad oggi

Volendo riassumere gli eventi, è sufficiente ricordare che a decorrere dal 2005 vi è stata una forte spinta all’utilizzo delle indagini finanziarie, caratterizzate da un’enorme forza probatoria con totale inversione dell’onere della prova in capo al contribuente. In particolare, stante l’assetto normativo prescelto, il fisco può ritenere determinate movimentazioni non giustificate, in quanto non ricollegate o ricollegabili agli accadimenti dell’attività svolta, spettando a questo punto al contribuente l’onere di dover dimostrare la fonte di provenienza dei versamenti eseguiti e la destinazione (mediante l’indicazione del beneficiario) dei prelievi effettuati. La spinta a tale tipologia di controllo era derivata dalla maggiore disponibilità di informazioni, con rilevante incremento dei dati informatici.

Per quanto riguardava i professionisti la variazione normativa del 2005 comportò la previsione della presunzione di evasione anche con riguardo ai prelievi eseguiti, disposizione che peraltro ebbe da parte dell’Agenzia delle entrate una interpretazione di carattere procedurale e, dunque, applicabile per tutte le annualità ancora accertabili.

Le problematiche di una simile scelta sono state sin da subito evidenti, soprattutto per quanto concerne i naturali utilizzi di carattere personale delle disponibilità finanziarie. In effetti, in capo ai professionisti mai nessuna disposizione ha previsto obblighi contabili specifici per i conti correnti, così come non è affatto disciplinata:

  • La modalità di incasso (che può avvenire per contanti, entro i limiti imposti dalla normativa antiriciclaggio), nonché l’eventuale tempistica di versamento degli importi incassati (che è libera e può anche non avvenire);
  • L’utilizzo diretto di detti contanti (anche esso libero, in quanto gli importi incassati possono spesi per l’attività, versati in tutto o in parte, conservati in privato o ancora spesi per motivi personali).

Per i professionisti la Corte Costituzionale ha risolto in toto il problema con la sentenza n. 228 del 2014, stabilendo che “l’attività svolta dai lavoratori autonomi si caratterizza per la preminenza dell’apporto del lavoro proprio e la marginalità dell’apparato organizzativo, che è quasi del tutto assente nei casi in cui è più accentuata la natura intellettuale dell’attività svolta, come per le professioni liberali”. Dal che deriva la non ragionevolezza della presunzione sui prelievi, avvalorata dal fatto che gli stessi “vengono ad inserirsi in un sistema di contabilità semplificata di cui generalmente e legittimamente si avvale la categoria”.

La Corte Costituzionale ha, pertanto, evidenziato gli elementi di fondo che impedivano l’utilizzo della presunzione sui prelievi per i professionisti: conto corrente promiscuo; utilizzo degli importi anche per finalità personali; mancanza di specifici obblighi.

 

La recente norma attuale

Il legislatore del DL 193/2016 ha deciso di ufficializzare sul piano normativo il percorso interpretativo tracciato dalla Suprema Corte, apportando la modifica in precedenza anticipata e, dunque, eliminando qualsiasi dubbio circa i prelievi operati dai professionisti: detti importi non sono mai contestabili da parte dell’amministrazione finanziaria.

Invero, nel corso dei lavori parlamentari era stata paventata anche la possibilità di eliminare in toto la presunzione sulle indagini finanziarie per i professionisti, provando a sopprimere la disposizione anche in riferimento ai versamenti. Tuttavia, tale norma non è stata poi emanata e, in occasione di Telefisco, l’Agenzia delle Entrate ha subito rimarcato che la recente variazione normativa di fatto opera solo sul mondo dei prelevamenti, potendosi affermare che sostanzialmente nulla è stato modificato per il mondo professionale, posto che l’impossibilità di agire in sede accertativa sui prelievi era già pacifica a seguito della sentenza della Corte Costituzionale.

Deve dirsi che la lettura della norma come novellata porta a condividere la conclusione evidenziata dall’amministrazione finanziaria, in quanto in relazione ai versamenti la portata probatoria delle indagini finanziarie continua ad essere intatta, in coerenza con l’assetto generale di tale tipologia di controllo, che consente di procedere ad un accertamento fiscale riferito ai versamenti ritenuti non giustificati in relazione a qualsiasi contribuente, anche privo di partita IVA (non essendo pertanto comprensibile per quale motivo i professionisti dovrebbero rimanerne immuni). In tale direzione è noto che qualche sentenza della Corte di Cassazione ha addirittura esclusa la possibilità di contestazione dei versamenti in capo ai professionisti, ma è altrettanto doveroso sottolineare che immediatamente e ripetutamente vi sono state sentenze di parere opposto, tese a confermare la presunzione in oggetto.

 

I versamenti in contanti da parte dei professionisti

Al che, senza entrare nel merito di tali oscillazioni giurisprudenziali (che si ripete comunque confermano in modo convincente la tesi prevalente dell’utilizzo della presunzione di evasione in caso di versamenti), si ritiene di poter condividere la conclusione esposta nella sentenza n. 16440 del 2016 della Corte di Cassazione, da cui si evince chiaramente che in relazione ai versamenti non sono possibili automatismi accertativi, essendo onere dell’amministrazione finanziaria provare che gli stessi siano derivati da incassi “a nero” dell’attività professionale. Detto onere probatorio deve essere rimarcato, proprio in considerazione della circostanza che per i professionisti da un lato è usuale incassare contanti e, dall’altro, non sussistono obblighi specifici circa i conseguenti adempimenti. Volendo essere pratici:

  • Nulla vieta che un professionista incassi in una settimana, ad esempio, 4.000 euro di contanti per le prestazioni eseguite e regolarmente documentate;
  • Nulla vieta che detto professionista decida di non versare immediatamente gli importi incassati e nemmeno è previsto che debba farlo entro un lasso di tempo determinato dalla documentazione emessa o dai medesimi incassi;
  • Ancora, nulla vieta che il professionista decida di trattenere tali importi, per destinarli a spese afferenti l’attività o ancora per utilizzi privati e familiari;
  • Nulla vieta, in definitiva, che il professionista in questione possa spendere 1.500 euro per acquisti riguardanti l’attività svolta, trattenga 1.000 euro per scopi privati e decida di versare, il mercoledì della settimana successiva, 1.500 euro in contanti sul conto corrente bancario.

Ecco perché il primo onere probatorio a carico dell’amministrazione finanziaria è fondamentale e deve sempre essere rispettato, perché non è ammissibile un automatismo accertativo che porti alla conclusione seguente: posto che l’importo versato di 1.500 euro non corrisponde ad un incasso di pari importo avvenuto nei giorni precedenti, allora si ritiene trattasi di incasso a nero.

In realtà, appare sicuramente più convincente sul piano logico la conclusione che il versamento eseguito derivi parzialmente dagli incassi ottenuti in precedenza.

Al fisco, dunque, il primo step di dimostrare per quale motivo ritiene i versamenti non giustificati.

Al contribuente, invece, la dimostrazione che i singoli versamenti siano estranei a fatti imponibili. Sul punto, si badi, non si ritiene necessaria una dimostrazione “puntuale” (ossia che a fronte del versamento di 1.500 euro vi sia, ad esempio, una fattura di 1.500 euro), altrimenti ci si troverebbe innanzi ad una vera e propria prova diabolica. Se così fosse, allora non si comprende per quale motivo non sia prevista una disposizione che renda obbligatorio incassare solo mediante il canale bancario ogni esatto importo di ogni singola fattura. In realtà è necessario dimostrare, anche secondo un percorso logico concludente, che il singolo versamento contestato è estraneo ad un accadimento reddituale o viceversa che è riconducibile agli incassi regolarmente documentati. Il solo limite posto dalla giurisprudenza è ad una difesa “per masse”, ossia fondata sulla dimostrazione, ad esempio, che il fatturato annuo sia comunque superiore ai versamenti eseguiti.

 

I prelievi in contanti da parte delle imprese

Resta da fare un rapido riferimento all’intervento del legislatore per quanto attiene alla presunzione sui prelievi riferita ai titolari di reddito d’impresa (in cui ricadono anche le società tra i professionisti). In tale direzione la variazione normativa non ha un elevato spessore tecnico, traducendosi piuttosto in una sorta di “suggerimento” per evitare guai.

Infatti, il legislatore ha scelto la strada della “soglia” massima di prelievi non contestabili, stabilendo che la stessa sia duplice su base giornaliera e mensile. Dunque, i prelievi in contanti, anche se non risultanti dalle scritture contabili e non si è in grado di dimostrane la destinazione, non saranno contestati se:

  • Di importo non superiore a 1.000 euro al giorno;
  • E comunque di importo non superiore a 5.000 euro al mese.

In tutta franchezza, appare anche inutile interrogarsi su cosa può accadere se i prelievi non giustificati sono di importo superiore.

Il (suggerimento) normativo è lampante: meglio rispettare le soglie (giornaliere e mensili) predette e documentare in maniera idonea e tracciata ogni ulteriore uscita dal conto corrente. Il solo elemento che si rimarca in questa sede è che finora l’Agenzia delle Entrate non si è espressa sulla corretta modalità con cui si debbano intendere le soglie in questione, quando:

  • si è in presenza di più conti correnti del contribuente controllato;
  • vi sono più soggetti titolari di conto corrente (conti cointestati);
  • l’indagine è estesa su conti correnti di terzi soggetti (coniugi, soci, altri familiari, etc), che si ritengono comunque collegati al soggetto controllato.

In poche parole qualcuno dovrebbe decidere se in questo caso le soglie in questione sono riferite al singolo conto corrente, al singolo titolare o, cumulativamente, al singolo soggetto sottoposto a controllo.

La sensazione è che la risposta la scopriremo solo tra qualche anno, quando si sarà sviluppato l’ennesimo filone giurisprudenziale sulla materia.

Ma questo è quel che passa il convento e non resta che provare a sfruttare solo il lato positivo della vicenda: se si rispettano le soglie, nulla accade.

 

Sottotitolo:
di Lelio Cacciapaglia e Maurizio Tozzi